Ma quale orca assassina
di Giuseppe Notarbartolo di Sciara
Articolo tratto da Rivista della Natura
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Non ci ha fatto certo piacere aver appreso dalla stampa di una donna la cui giovane vita è stata stroncata dal ghiribizzo di un’orca. A rincarare la dose del nostro sconforto, tuttavia, è andata ad aggiungersi una sequela di scempiaggini propagate dai media che una volta di più ci dimostra come l’umana percezione del proprio rapporto con gli animali, con il mare, con l’ambiente in genere permanga – forse incorreggibilmente - inchiodata ai livelli più sconcertanti di ignoranza e qualunquismo.
In primo luogo quel nome – “orca assassina” – goffa traduzione dell’inglese killer whale di becera tradizione baleniera. Le orche erano viste attaccare le balene e per questo erano dei killer; tuttavia, non si capisce perché debba essere più killer l’orca di un delfino che ghermisce la sardina, di un gatto che acchiappa un topo, o a dir la verità anche del baleniere stesso che ammazzava qualsiasi cetaceo gli capitasse a tiro. Nell’aggiungere che lo strafalcione suona tanto più fuori luogo con l’orca, la cui socialità è tra le più salde, regolate e solidali tra quelle note nei mammiferi, ci pare quasi di sparare sulla Croce Rossa. Ovvio che in una delle rarissime circostanze in cui un’orca ha attaccato un essere umano (sei a quanto ci risulta, tutte guarda caso riguardanti animali in cattività), a questi zappatori della carta stampata non è parso vero di appioppare all’orca un appellativo che non potrebbe essere più ecologicamente, etologicamente ed eticamente scorretto.
Secondo: ci meravigliamo che un’orca abbia ucciso un essere umano, quando invece dovremmo meravigliarci del perché i più temibili predatori del mare persistano nel comportarsi in maniera così inspiegabilmente benevola nei confronti della nostra specie. Grandi come camion, capaci di sviluppare scatti di oltre 30 nodi, dotate di grande intelligenza e coordinamento, le orche terrorizzano tutti gli abitanti degli oceani, dalle gigantesche balenottere alle piccole aringhe. Eppure rispettano l’uomo: un vero mistero, anche tenendo conto che tale rispetto non ha loro valso un trattamento migliore da parte nostra. Viene pertanto da chiedersi se il vecchio Tilikum – orca maschio del Sea World di Orlando, catturato in Islanda 27 anni fa, che ha causato la morte dell’addestratrice Dawn Brancheau oltre ad essere stato coinvolto in altri due dei sei eventi di cui sopra - non sia semplicemente un essere avvezzo, più che a intenti omicidi, a un gioco troppo pesante per interazioni con queste mezze cartucce che siamo noi umani.
Infine, la domanda che secondo me ha più senso di tutte è affiorata ben raramente sui media. Cosa ci fa un’orca in una vasca che, fatte le proporzioni, è come una vasca da bagno per una carpa di 10 kg? Abbiamo strappato con la violenza questi animali sociali e intelligenti dalle loro comunità per confinarli in uno spazio innaturale, che nulla ha a che fare con l’habitat in cui si sono evolute, fingendo finalità educative ma in realtà in nome del profitto: una delle tante brutte pagine del rapporto dell’uomo con il mare. È vero che più della metà delle orche oggi rinchiuse negli acquari è nata in cattività, ma questo migliora ben di poco la situazione, perché le orche non sono fatte per questa vita. La domanda non viene posta perché un’orca chiusa in una piscina non fa notizia così come non ne fa una carpa in vasca da bagno; quello che fa notizia è l’orca in piscina che ha fatto polpette di uno dei suoi carcerieri. Chissà mai che il triste evento di Orlando possa indurci a rivedere radicalmente le nostre posizioni nei confronti della cattività, e a considerare i collegamenti esistenti tra l’umana smania di dominio e il crescente degrado del mondo in cui viviamo, che da tale smania deriva. Se così avvenisse, almeno Dawn non sarebbe morta per niente.
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