26 March 2007

Il mio inverno con i tursiopi


Ho iniziato a collaborare con la Tethys come assistente di campo per lo Ionian Dolphin Project, nell’ottobre 2006.

Inizialmente era stato richiesto il mio aiuto per due mesi, poi però, poco prima di ripartire per l’Italia, ho chiesto a Joan se potevo rimanere ancora. Il progetto mi stava coinvolgendo molto e, avendo fatto pochi avvistamenti, volevo perfezionare la mia pratica sul campo.

Alla fine sono rimasta fino a fine marzo, trascorrendo così tutto l’inverno a Vonitsa.

Ripensando alla mia esperienza nel Golfo di Amvrakikos, la prima immagine che mi viene alla mente siamo io e Joan in gommone, in una fredda mattina d’inverno, col sole un po’ coperto dalle nuvole e un vento così pungente da non sentirsi più le dita delle mani. Io, “donna cipolla” con mille strati di vestiti addosso...

Ricordo il mio primo incontro con i delfíni... Devo aver fatto una buffa espressione, di quelle col sorriso che arriva all’attaccatura dei capelli! Averli così vicini, liberi e curiosi del nostro lavoro... che emozione!

In effetti aver avuto la possibilità di fare ricerca sui delfíni in natura è stato incredibile, ogni momento passato con loro è un’esperienza indimenticabile, anche se devo dire che durante gli avvistamenti ero sempre molto tesa e concentrata. Di giorno in giorno infatti ho avvertito sempre più l’importanza di quello che stavamo facendo per la tutela di questi meravigliosi animali.

Le giornate proseguivano poi a casa, tra mille cose da fare, dal lavoro di fotoidentificazione alle semplici faccende domestiche, non c’era mai tempo per annoiarsi!

La mia vita a Vonitsa è stata allietata dall’ospitalità e gentilezza disarmanti di tutte le persone che ho conosciuto qui in paese. Mi ricordo di una cena a base di pizza a casa di Jimmy, il benzinaio, con tutta la sua famiglia. Ero arrivata da poco e di greco capivo sì e no tre parole, ma ho passato una serata deliziosa e neanche per un istante mi sono sentita esclusa.

E poi i padroni di casa, sempre pronti a farci assaggiare qualche specialità greca appena sfornata. O i pescatori, preziosi consulenti per il meteo, che ricordo sempre sorridenti a sistemare con cura le loro reti.

E per finire Stamata, la nonnina di 82 anni che abita vicino a noi, che mi ha presa in simpatia e con la quale mi sono cimentata in “lunghe” conversazioni (armata di vocabolario e di molta fantasia!)

Questa esperienza mi ha davvero arricchita e mi ha dato molti spunti e idee per il mio futuro professionale. Sicuramente è stata la conferma della mia passione per la ricerca sul campo e per il mondo dei cetacei.

Un ultimo pensiero va a Joan, biologo e grande chef! Lui con me è stato abbastanza duro, ma mi ha insegnato tutto quello che adesso so sul comportamento e sul riconoscimento dei tursiopi, la specie che abita il Golfo, trasmettendomi oltretutto una forte passione per la vita di mare, e questa è la cosa più importante.

Elisa Malevolti

25 March 2007

Un cetaceo tra i chicchi d’uva


La Toscana vanta una fama mondiale per le sue ricchezze paesaggistiche, storiche ed enogastronomiche, ma ora c’è un particolare che la rende ancora più interessante.

Un team di paleontologi impegnati in scavi tra i vigneti del famoso Brunello di Montalcino ha recentemente scoperto lo scheletro di un cetaceo, datato 5 milioni di anni fa. Sotto uno strato di argilla sono state ritrovate 16 vertebre dell’animale, allineate, dicono gli esperti, come al momento della morte del cetaceo. Lo stato di conservazione è ottimo e i paleontologi confidano di portare alla luce anche il resto dello scheletro, al momento ancora sottoterra.

L’unicità della scoperta non risiede tanto nel luogo, già conosciuto per ritrovamenti di denti di squalo e frammenti di vertebrati, ma nel fatto che questo scheletro è il più grande e antico mai rinvenuto nel bacino del Mediterraneo. Il record precedente spettava, infatti, allo scheletro della balena di Montaione, datato 4,4 milioni di anni e rinvenuto alla fine del 1800 nelle colline presso Firenze.

La scoperta conferma che nel primo Pliocene queste zone collinari erano sommerse da un mare densamente popolato di grandi vertebrati.

Che sia anche questo il segreto di quel retrogusto nell’ottimo Brunello?

Silvia Bonizzoni

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Per approfondimenti:
http://www.gamps.it/articles.asp?id=25

24 March 2007

Tethys Manga?


Cosa mai avranno in comune un blog che tratta temi cetologici e un blog specializzato sui MANGA, i celebri fumetti giapponesi oggetto di culto da parte dei ragazzini?

Tanto per cominciare il nome: Tethys Blog e Tethys's Blog.

E pure la stessa data di nascita: novembre 2006!

Ma la similitudine pensiamo che finisca qui.

SB/GB

23 March 2007

Un commento

Ho letto con interesse l'intervento di Giovanni Bearzi sul clima che cambia (post del 22 marzo 2007). In occasioni come questa mi torna sempre in mente la sarcastica considerazione del matematico in Jurassic Park, che irride il timore espresso da uno dei protagonisti per la sopravvivenza della vita sulla Terra e la stigmatizza come delirio di onnipotenza; conclude poi amaramente dicendo che non è certo la vita ad essere in pericolo - ben più potente e tenace di qualsiasi intervento umano, sulla scala dei milioni di anni - ma la vita delll'uomo sì (e di qualche altro migliaio di specie, aggiungo io).

E certo non sono indifferente alla sorte dei nostri figli e non credo che "sia vano il nostro arrabattarci in un mondo che cambia così rapidamente": non abbiamo altri strumenti che l'impegno di coloro che partecipano alla formazione del sapere. L’Intergovernmental Panel On Climate Change non è nato da solo e qualche effetto lo sta producendo, mi sembra. Cosa altro potrebbe (forse) convincere il grande pubblico a comportamenti più responsabili e a premere su quelli che contano per scelte - in definitiva - semplicemente più sagge se non un infaticabile richiamo fondato sul patrimonio del sapere, a cui partecipano anche i cetologi?

Mi viene in mente un’altra citazione (mai troppo citata): "resistere, resistere, resistere"; Borrelli si rivolgeva alla onestà intellettuale in forma ampia, che col clima non cambia e di cui il nostro arrabattarci comunque credo voglia fare parte.

Massimo Demma
Disegnatore e Socio onorario dell'Istituto Tethys

22 March 2007

Clima che cambia


fai click sull'immagine per ingrandirla


Dal sito di Beppe Grillo:

L’Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC) distribuirà tra aprile e maggio il Quarto Rapporto sui cambiamenti climatici commissionato dall’Onu. Un suo estratto: Cambiamento del clima – Sommario per i politici è stato presentato a Parigi alcune settimane fa. (...) 2.500 esperti di 130 nazioni hanno lavorato per 6 anni per dirci una cosa che si percepiva, che sapevamo già: che i nostri figli e i nostri nipoti penseranno a noi come a dei delinquenti. (...) Si discute di scioglimento dei ghiacciai, della scomparsa dei grandi fiumi, dell’avvelenamento di città intere come se questi fatti riguardassero qualcun altro. Ed è vero: riguardano i nostri figli. (...) Undici degli ultimi dodici anni sono stati tra i più caldi dal 1850, da quando le misurazioni sono attendibili. Il 30% delle specie è a rischio di estinzione. Le foreste tropicali saranno sostituite dalla savana. Tra uno e tre miliardi di persone potrebbero morire di fame o di sete. (...)


Di fronte a queste notizie sconvolgenti non sappiamo come reagire. Possiamo credere che siano le esagerazioni di un comico, ma leggendo il rapporto dell'IPCC ci si accorge che non si tratta di questo. La situazione è davvero terrificante.

Siamo assuefatti a questo tipo di informazioni, e ormai tendiamo a evitare le notizie deprimenti sull'ambiente disperse in un mare di gossip. Ma il mutamento del clima non si fa dimenticare. Possiamo non pensarci per un po', ma poi vediamo alberi fiorire a gennaio, la neve a primavera.

Nel nostro lavoro di cetologi ci troviamo ad affrontare nuove sfide. Balene e delfini non avevano già abbastanza problemi?

Popolazioni già minacciate dalle molte attività umane dovranno ora fare i conti anche con gli effetti di sconvolgimenti climatici? Come potremo tener conto anche di questa immensa variabile nei nostri studi, già complicati da un gran numero di fattori e di incognite?

Un aumento nel numero di animali sarà dovuto al gran caldo o alla riduzione del bycatch? La minore natalità un effetto dei contaminanti o di mutamenti nella rete trofica? Sarà ancora possibile stabilire dei semplici rapporti di causa-effetto, così come siamo chiamati a fare noi ricercatori?

Ancora di più, viene da chiedersi se non sia vano il nostro arrabattarci in un mondo che cambia così rapidamente. Un mondo in cui i nostri poveri strumenti di indagine di rado forniscono risposte chiare, e dove le strategie di conservazione che riusciamo a ideare oggi sono già superate domani.

E' difficile dare delle risposte. Ma vale certamente la pena di porsi delle domande e mettere continuamente in discussione il proprio lavoro, cercando di adeguarlo a una situazione continuamente mutevole. Mutevole almeno quanto la curva che, nel rapporto IPCC, indica l'incredibile innalzamento della temperatura negli ultimi cento anni.

Giovanni Bearzi

17 March 2007

The early days of the Adriatic Dolphin Project


Tethys President Giovanni Bearzi reports on his experience with the project

I first went to Losinj in 1987 with my father’s inflatable boat, staying in a camping. I was told that dolphins around Losinj and Cres were easy to find, and could be approached from small boats. That sounded very interesting to me, as I was looking for ways to do a dolphin study for my Biological Sciences thesis at the University of Padua. By that time I had been surveying portions of the Mediterranean from oceanographic vessels, recording cetacean sightings. However, I was hoping to get a little closer to the animals, rather than just identifying the species and counting them while passing by. I soon realised that Losinj offered amazing opportunities. Bottlenose dolphins were easy to find, they could be photographed individually (which later allowed the identification of most community members) and they could be followed at close quarters during their daily movements, thus allowing to collect information on their behaviour. The first time I came back home after two weeks in Losinj I knew for sure that my life had changed - I finally had found what I was looking for. I completed my thesis on northern Adriatic dolphins, and then Giuseppe Notarbartolo di Sciara and myself decided that it was worth to continue, under the umbrella of the young Tethys Research Institute. Our aim was to start a long-term study to replicate in the Mediterranean what the likes of Randy Wells and Bernd Würsig had done in other parts of the world.

In 1990 Giuseppe and I crossed the border between Italy and former Yugoslavia with a busload of enthusiasm and hope. With us there was Laura Bonomi, one of the finest field workers I ever met. We managed to find a sponsor for the boat, an outboard engine, basic research equipment (a reflex camera, a tape recorder and the first GPS model available on the market), plus a little money for the renting of a house and for the gasoline. Nobody cared much about earning a salary, or turning the project into some sort of business (which it never became). All we wanted was finding the dolphins and getting to know them better. And that’s what we did, eventually, facing all sort of difficulties, dealing with damaged boats, broken engines, political trouble, much frustration, cold winters, lack of money, countless hours writing proposals and entering data, personal difficulties and the whole set of problems that come with a field project. But also hundreds of unforgettable hours spent with the animals, known one by one as good friends. The joy of being at sea, alone or with some of the many extraordinary people who joined me in that adventure. Observing dolphins, and eventually understanding at least in part what was going on, what they were doing, what they were likely to do next, and who was there socialising with Taba and Pinna Vibrante.

Although research was our main activity, the Adriatic Dolphin Project developed into something more than just a dolphin study. It soon attracted interest from enthusiastic local supporters such as Arlen Abramic, and then Nena Nosalj and many others. Nena, in particular, was instrumental in enhancing the public awareness potential of the project and allowing us to share whatever we learned about the local dolphins with the general public and the media. The Dolphin Day was one of her many brilliant ideas. She and Arlen also “forced” me to make dozens of presentations in front of a public that ranged from tourists to fishermen, from refugee children to commando soldiers. Today, I’m so glad I did all that, contributing to the development of what is now one of the most successful and long-lasting dolphin projects in the Mediterranean, and setting the stage for the next round of fine people, Drasko, Pete, Caterina and all the others, to whom we eventually passed the baton. After almost two decades, it is nice to see that the Adriatic Dolphin Project has managed to overcome many apparently insurmountable problems and that Blue World is now doing such an excellent work, with about the same spirit and motivation we had in the early days. I wish that all will continue to produce outstanding conservation results, shining as a testimony that commitment by enthusiastic individuals can make a difference in this world.

Giovanni Bearzi
Venezia, November 2004

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Tethys has been managing the Adriatic Dolphin Project between 1987-2000. Today, the project is run by Blue World, a Croatian organisation. Research by Tethys in the Adriatic continues in the context of the Venice Dolphin Project.
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An overview of research in the northern Adriatic Sea can be found in the following article:
Bearzi, G., Holcer, D. & Notarbartolo di Sciara, G. 2004. The role of historical dolphin takes and habitat degradation in shaping the present status of northern Adriatic cetaceans. Aquatic Conservation: Marine and Freshwater Ecosystems 14:363-379. (212 Kb)

More Adriatic literature can be downloaded from the Publications section of this page.

You may also want to consult the Library of Cetaceans, sea turtles and sharks of the Adriatic Sea assembled in the context of project AdriaWatch.

16 March 2007

Capodoglio rovescia barca. Un uomo muore


Qualche giorno fa, nei pressi dell’isola di Shikoku, 800 km a sud di Tokio (Giappone), un capodoglio ha ribaltato una barca. I tre pescatori a bordo sono stati sbalzati in acqua e uno è morto accidentalmente.

L’animale, molto probabilmente malato o in difficoltà, si era ritirato presso la costa, in acque poco profonde. Restava fermo in superficie con fare letargico, forse in attesa di morire. Alcune imbarcazioni si sono avvicinate e le persone a bordo hanno cominciato a produrre suoni percussivi e tintinnii con oggetti metallici o battendo sulle barche, con l’intenzione di farlo allontanare.

Verosimilmente, invece, il continuo frastuono non ha fatto che esasperare il capodoglio. Nel momento in cui un’imbarcazione si è posizionata proprio sopra di lui, l’animale ha mosso ripetutamente la coda verso l’alto, non si sa se con intenzioni deliberatamente aggressive o solo per dissuadere tutta quella gente dal continuare a tormentarlo. Ed è avvenuta la tragedia.

Silvia Bonizzoni

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Per vedere il filmato:
http://tv.repubblica.it/multimedia/home/603975?ref=hpmm

15 March 2007

La focena del Golfo di California: estinzione annunciata o esempio di buona gestione?


Nei laboratori a picco sul mare dello Scripps Institution of Oceanography, sulla costa californiana presso San Diego, circa 70 esperti internazionali discutono animatamente di delfini e balene. Sono stati convocati dalla World Conservation Union (IUCN) in occasione del Cetacean Global Red List Assessment - un workshop organizzato a gennaio 2007 per definire lo stato di conservazione e il rischio di estinzione di tutti i cetacei. Fra gli esperti convocati da ogni parte del mondo ci sono anche due italiani, rispettivamente presidente e presidente onorario dell’Istituto Tethys. Sono Giovanni Bearzi, nel gruppo delegato ai piccoli odontoceti, e Giuseppe Notarbartolo di Sciara, per i grandi odontoceti.

Dall’alba al tramonto, in una settimana di lavoro frenetico, vengono passate in rassegna tutte le oltre 85 specie di cetacei viventi. Ci si dà da fare per classificarne lo stato di conservazione a livello globale partendo dalle stime di popolazione disponibili, dai principali parametri biologici, dalla distribuzione geografica degli animali e dalla mortalità causata dall’uomo. Alla fine del workshop, per tutte le specie viene proposta una classificazione basata sui rigidi criteri IUCN.

Le specie in grave pericolo sono moltissime, e comprendono cetacei enormi e carismatici come la balenottera azzurra, e delfini poco conosciuti come il cefalorinco di Hector. Tra tutte, due specie destano le maggiori preoccupazioni e rappresentano un campanello d’allarme che non può essere ignorato. Si tratta di due piccoli odontoceti a rischio immediato di estinzione, che nella Lista Rossa condividono la stessa condizione definita “critically endangered”: il lipote (Lipotes vexillifer) del fiume Yangtze e la focena del Golfo di California (Phocoena sinus), che con i suoi 1,5 metri di lunghezza è il cetaceo più piccolo del Pianeta.

Il lipote viene ancora classificato come “critically endangered” più che altro a fini scaramantici, poiché è probabile che oggi non ci siano più esemplari viventi di questa specie. Nel 2006, infatti, durante un survey sistematico dello Yangtze svolto da un nutrito gruppo di ricercatori non è stato trovato neanche un individuo, e questo suggerisce che l’ultimo lipote possa essere spirato da tempo in solitudine, sul fondo del fiume. Gli esperti lo considerano “tecnicamente” estinto, e si tratta nientemeno che del primo cetaceo scomparso nella storia dell’umanità a causa dell’effetto combinato del degrado ambientale e delle catture intenzionali e accidentali. Un triste primato.

L’altrettanto triste titolo di cetaceo maggiormente minacciato passerebbe quindi alla piccola focena endemica delle acque settentrionali del Golfo di California, in Messico. La sua popolazione è oggi costituita da poche centinaia di esemplari e ogni anno il numero si riduce a causa delle morti accidentali nelle reti da pesca.

In virtù della situazione critica e della necessità di interventi immediati per salvare le ultime focene, Julia Marton-Lefèvre - direttrice generale della IUCN - ha scritto qualche giorno fa una lettera significativa al Presidente del Messico Felipe Calderón Hinojosa e ad altri 11 membri governativi. Nella sua lettera, Marton-Lefèvre sottolinea come la situazione della piccola focena non necessiti di ulteriori ricerche, ma solo ed esclusivamente di misure gestionali tempestive. L’unica azione che potrebbe salvare questo cetaceo dall’estinzione è il bando delle reti da pesca nelle acque frequentate dall’animale (un’area di soli 50 km x 100 km).

L’IUCN riconosce che il bando delle reti da pesca avrebbe implicazioni sociali ed economiche, e suggerisce di prendere in considerazione programmi e azioni per lo sviluppo di alternative occupazionali eco-sostenibili che possano favorire le popolazioni locali, anche attraverso la promozione della Riserva della Biosfera (già esistente) e lo sviluppo di metodi alternativi per la pesca di pesci e crostacei.

La lettera della direttrice IUCN si conclude con un messaggio che non concede scappatoie. Se non verranno intraprese azioni immediate per bandire le reti nella sezione settentrionale del Golfo di California, la focena seguirà certamente la stessa sorte del lipote diventando così la seconda specie di cetaceo estinto nel corso della nostra generazione, e questo potrebbe verificarsi nel giro di pochi anni.

C’è da augurarsi che il Presidente del Messico e gli altri deputati e senatori non siano sordi a questo pressante allarme, e prendano in seria considerazione l’autorevole appello, facendo tutto il possibile per scongiurare l’estinzione della piccolissima focena. Un intervento da parte del Messico per salvare questo tesoro naturale costituirebbe un esempio di lungimiranza politica e un segnale di speranza per tutte le altre specie in pericolo.

Giovanni Bearzi e Silvia Bonizzoni

14 March 2007

Delfini a scuola


"Volete che vi racconti delle balene e dei delfini?" chiedevo ai miei bambini quando erano più piccoli. In genere la proposta veniva accolta con relativo entusiasmo, ma già al passaggio sui mammiferi-che-respirano-aria iniziavano i primi sbadigli e dovevo battere in ritirata. Forse, per loro, era ancora troppo presto. Motivo per cui aspettai alcuni anni e, recentemente, tornai alla carica.

Saltando a piè pari sia il capitolo "misticeti/odontoceti" che l'evoluzione, procedetti questa volta direttamente con quegli argomenti che i figli di una cetologa possono avere il privilegio di sentire di prima mano: la ricerca in mare. "Gli studiosi oggi sanno addirittura distinguere un delfino da un altro - recitai - con una tecnica che si chiama FOTO-I-DEN-TI-FI-CA-Z-I-O-NE".

"Ah, ma quello lo sappiamo già" saltò su Nicolò, quinta elementare."C'è sul libro di lettura." E a conferma mi mise sotto il naso una bella doppia pagina a colori che titolava "Baby delfini in Sardegna" e "Come adottare un delfino", corredati di tre foto ravvicinate delle dorsali di "Pinnabianca", "Patella" e "Alfa".

Erano proprio queste catalogazioni dei cetacei, che permettono di riconoscere i singoli individui sulla base di tacche e graffi sulla pinna e sul corpo, e seguirli nel tempo, che avevo avuto intenzione di spiegare ai bimbi, così come, fin dai primissimi anni di Tethys, un po' tutti noi raccontavamo delle ultime ricerche ai volontari, e scrivevamo sulle riviste di divulgazione. In cima alla lista delle nuove metodologie, la fotoidentificazione era un sistema che, alla fine degli Anni Ottanta, collaudavamo per primi lungo le nostre coste; avrebbe dato risultati significativi negli anni a venire e, per inciso, viene largamente impiegata ancora.

I delfini del libro di lettura di Nicolò non sono stati foto-identificati da Tethys, ma poco importa. Fatto sta che l'informazione "cetologica" ha decisamente varcato i confini del giornalismo di settore. Potremo sempre dire che abbiamo fatto... scuola. Sarà di buon auspicio per l'atteggiamento delle generazioni future verso il mare e i relativi animali? Possiamo solo sperarlo.

Maddalena Jahoda

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Bibliografia: Ed. CETEM, 2006, Leggerissimo 5, sussidiario del linguaggio.

09 March 2007

La Spagna protegge le balene. E l’Italia?


Le navi in transito nello Stretto di Gibilterra devono rallentare e prestare attenzione a capodogli e balenottere presenti nell’area. Mentre i cetacei del Santuario Pelagos continuano a essere vittime di incidenti


Nello Stretto di Gibilterra, uno dei tratti di mare più trafficati al mondo, il Governo Spagnolo ha recentemente deciso di imporre alle navi in transito di rallentare la propria velocità per meglio “avvistare” i cetacei presenti. La speciale raccomandazione impone alle navi di limitare la velocità a 13 nodi (circa 24 Km/h) e di navigare in stato di “massima allerta” per evitare la collisione con i cetacei eventualmente presenti in quelle acque. La velocità delle imbarcazioni nello Stretto di Gibilterra può variare notevolmente da imbarcazione a imbarcazione, con picchi di oltre 30 nodi (55.5 Km/h) nel caso dei traghetti veloci che collegano la Spagna con i porti del Marocco. Proprio questi traghetti veloci, che attraversano lo Stretto trasversalmente, rappresentano la principale minaccia di collisione per i grandi cetacei, che in quella zona sono particolarmente abbondanti.

Nel Mediterraneo le collisioni tra imbarcazioni e cetacei, principalmente balenottere comuni e capodogli, sono avvenimenti abbastanza frequenti, tuttavia una misura di mitigazione cosi radicale non era mai stata presa, anche se da tempo i ricercatori e le organizzazioni deputate alla tutela degli animali invocavano a gran voce misure di questo tipo. Quella della Spagna è quindi una tappa “storica” nella conservazione dei cetacei.

Nello Stretto di Gibilterra le vittime principali delle collisioni sono i capodogli, cetacei di lunghezza variabile tra i 14-18 metri, che si concentrano in quelle acque durante la stagione alimentare, compresa tra febbraio e luglio. Durante questo periodo nello Stretto sono presenti regolarmente almeno 20-30 capodogli che trascorrono lunghi periodi di tempo in superficie, per ossigenarsi prima delle lunghe apnee che li portano ad alimentarsi a profondità elevate. Questo comportamento li espone al rischio di collisione con le imbarcazioni.

E nel resto del Mediterraneo cosa succede? Recenti dati pubblicati dall’Istituto Tethys in collaborazione con ricercatori francesi e americani hanno rivelato che negli ultimi trent’anni almeno 43 balenottere comuni (su 287 carcasse rivenute tra il 1972 e il 2001) sono morte in seguito alla collisione con imbarcazioni, e questo numero è certo sottostimato rispetto al reale impatto sulla popolazione.

Circa l’80% degli scontri con esito fatale si verificano nel Santuario Pelagos, un’area marina protetta istituita nel 1999 proprio perchè densamente popolata da diverse specie di cetacei. Le collisioni risultano più frequenti tra aprile e settembre a causa dell’aumento del traffico marittimo, che coincide con un picco nella presenza delle balenottere che in primavera/estate si concentrano nelle acque del Santuario per alimentarsi.

Allo scopo di ridurre il rischio di collisione sono state proposte soluzioni che comprendono la presenza di osservatori a bordo delle navi (deputati a controllare l’eventuale presenza di cetacei sulla rotta), la riduzione della velocità nelle aree di maggior abbondanza di animali, e l’utilizzo di rotte alternative per evitare le zone più popolate dove le collisioni sono più probabili.

Ci auguriamo che ora, anche grazie all’iniziativa spagnola, altri governi, e in particolare quelli firmatari dell’Accordo per il Santuario Pelagos (cioè Francia, Italia e Principato di Monaco) decidano di adottare misure volte a diminuire il numero di collisioni fatali tra imbarcazioni e grandi cetacei.

Simone Panigada

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Per approfondimenti:
http://www.iht.com/articles/ap/2007/02/24/europe/EU-GEN-Spain-Watch-the-Whales.php

08 March 2007

La coda bionica di Fuji


Fuji - un tursiope femmina di circa 35 anni - è stata catturata nel 1976 al largo del Giappone e trasportata nell’acquario di Okinawa, dove per oltre 26 anni è stata fatta esibire in spettacoli per il pubblico.

Nel 2002, a causa di una grave malattia alla coda (necrosi cellulare e insufficienza circolatoria), Fuji non riusciva più a saltare e a divertire gli spettatori come aveva fatto per gran parte della sua vita - così i veterinari hanno deciso di intervenire. Per paura che la malattia si diffondesse al resto del corpo, sono stati amputati entrambi i lodi della coda, circa il 75% dell’arto.

Dopo l’amputazione, tuttavia, il delfino non riusciva a fare abbastanza esercizio fisico, si stancava in fretta e stava ingrassando. Fuji è stata così sottoposta a un allenamento che le ha permesso di riprendere a nuotare, ma con performance ben inferiori a quelle dei delfini “normali”.

Nasce quindi l’idea di applicarle una coda artificiale. Interviene un’importante azienda di pneumatici da corsa e dopo due anni di lavoro, dieci prototipi e una spesa di 65.000 Euro, viene costruita una coda amovibile.

Per Fuji non è stato facile accettare questa nuova condizione perché, come tutti i delfini, non sopportava la presenza di un oggetto estraneo attaccato al suo corpo. Dopo 5 mesi è riuscita ad abituarsi, ma questa coda artificiale non è perfetta. Per evitare sofferenze all’animale e per non danneggiare la preziosa coda, Fuji può indossare la protesi solo per 2-3 ore al giorno. Nel frattempo, stanno continuando le ricerche per un modello migliore.

Silvia Bonizzoni

03 March 2007

Song of the Whale ti sta cercando


Song of the Whale è una fantastica barca di 22 metri costruita specificamente per la ricerca sui cetacei dall’International Fund for Animal Welfare (IFAW). Da anni solca i mari di tutto il mondo nell’ambito di progetti specifici di ricerca e conservazione sui mammiferi marini.

Quest’anno Song of the Whale sarà in azione da maggio a ottobre nel Mediterraneo orientale, con il principale obiettivo di monitorare acusticamente capodogli e altri cetacei.

L’equipaggio di Song of the Whale sta ora cercando persone appassionate (con adeguata esperienza) che possano contribuire allo svolgimento del progetto. Si tratta di una magnifica opportunità di lavorare a stretto contatto con ricercatori esperti, utilizzare una strumentazione all’avanguardia e imparare a vivere a bordo di una barca da ricerca.

Negli ultimi anni Song of the Whale ha ospitato numerosi collaboratori dell’Istituto Tethys e tutti sono rimasti entusiasti di questa esperienza, durante la quale hanno potuto apprendere nuovi metodi di indagine sui cetacei, confrontarsi con altri ricercatori europei e arricchire le proprie conoscenze.

Se credi di essere la persona giusta per Song of the Whale, consulta il sito: www.ifaw.org/sotw

Le iscrizioni sono aperte fino al 16 marzo 2007!

Silvia Bonizzoni

02 March 2007

Conservazione... di carta


In un editoriale apparso recentemente su Conservation Biology - intitolato "Marine Conservation on Paper" - ho provato ad esprimere con sincerità il mio modo di sentire dopo molti anni trascorsi a cercare di migliorare lo stato di conservazione dei delfini in Mediterraneo.

Quando ho cominciato a lavorare c'era la percezione diffusa che se i delfini dei nostri mari non erano protetti questo dipendava anche o soprattutto dal fatto che i loro problemi non erano noti, non erano stati descritti in termini sufficientemente scientifici, oppure perché le conoscenze disponibili non erano state divulgate e convertite in Piani d'Azione con chiare indicazioni gestionali.

Il mio gruppo di ricerca ed io abbiamo provato a fare tutto questo: abbiamo studiato alcune popolazioni di delfini costieri in Mediterraneo per due decenni, abbiamo identificato e descritto le principali minacce, abbiamo pubblicato quei dati su periodici internazionali, li abbiamo divulgati attraverso i media europei e abbiamo redatto ampi piani di conservazione contenenti le azioni necessarie alla tutela degli animali. Abbiamo anche contribuito a una adeguata classificazione delle popolazioni, ad esempio includendo i delfini comuni del Mediterraneo nella Red List della World Conservation Union (IUCN) come popolazione "Endangered", oppure portando il delfino comune in Appendice 1 della Convenzione di Bonn (Convention on the Conservation of Migratory Species of Wild Animals, o CMS). Tutto questo è servito? Al momento pare proprio di no. I delfini continuano il loro declino e non sembrano essersi accorti del nostro lavoro.

Possiamo vantare nel nostro curriculum importanti "successi" scientifici e di conservazione, ma se tutto questo non si traduce in un effettivo beneficio per gli animali, si tratta davvero di un passo avanti? Certo, tutto quanto è stato fatto finora contribuisce a mettere i problemi nella giusta prospettiva, ma è ancora davvero poco se si considera che in alcune zone del Mediterraneo i delfini scompaiono a ritmi allarmanti.

Come scienziati e ricercatori, tendiamo a considerare un successo la pubblicazione dei nostri lavori su periodici di grido. A quel punto magari ci sentiamo soddisfatti. Ma quando si tratta di conservazione e non di scienza pura, è importante considerare la pubblicazione dei dati come un primo passo, e forse neanche il più importante, verso il raggiungimento di un obiettivo ben più difficile e lontano. Si tratta infatti di usare il nostro lavoro scientifico come un semplice strumento per dare sostanza e forza a un processo che comprende moltissima comunicazione verso l'esterno: seminari, conferenze, eventi, opuscoli informativi, lobbying, azioni che mettano quel particolare problema sotto i riflettori, fino al punto in cui i gestori arrivino a capire che si tratta di una faccenda che non può essere ignorata.

Perchè questo avvenga è necessario ingegnarsi per migliorare la qualità della comunicazione. Vogliamo combattere una battaglia per proteggere i delfini dell'Adriatico o dello Ionio? Dobbiamo fare in modo che la loro sopravvivenza sia percepita come qualcosa di importante, bisogna sensibilizzare il grande pubblico così come gli stakeholder anche attraverso un nostro diretto coinvolgimento. Le persone più qualificate per trasmettere quel tipo di messaggio siamo proprio noi che abbiamo descritto il problema in termini scientifici, che abbiamo a cuore la sorte degli animali, e che, soprattutto, abbiamo una nostra storia personale da raccontare.

La chiave di lettura del problema, il fattore di interesse, è forse proprio la nostra motivazione personale e la nostra speciale percezione del problema. Quello che la gente vuole sapere, alla fine, non è quanti delfini ci sono o quali enormi problemi li minacciano, ma perché a me - come individuo - sta tanto a cuore la loro sopravvivenza. Siamo assediati da storie agghiaccianti e ormai assuefatti al disastro ambientale, e tuttavia le storie personali ancora ci interessano e siamo affascinati dagli idealisti e da chi dedica la propria vita a una causa meritevole, nonostante tutto.

Sta a me, allora, portare avanti questa piccola battaglia. Se riesco a trasmettere tutto il mio carico di emozioni, se ce la faccio a raffigurare la presenza di delfini nel mare come un valore assoluto, allora può capitare che qualcuno sia disposto a fare qualcosa. Per riuscire a fare la differenza devo mettermi in gioco, e non limitarmi a pubblicare montagne di carta che troppo spesso finiscono negli scaffali polverosi di qualche archivio.

La documentazione dei problemi è necessaria, i Piani d'Azione sono fondamentali, il contesto internazionale è importante, ma perché tutto questo porti davvero a un cambiamento c'è bisogno che qualcuno sia disposto a modificare il proprio comportamento, forse a rinunciare a qualcosa in nome di un qualcos'altro che, grazie al nostro impegno, viene ora percepito come più importante.

Posso smettere di mangiare pesce spada perché so che le reti illegali con le quali vengono catturati questi pesci fanno strage di cetacei e tartarughe. Posso evitare di comprare tonno perché sono consapevole che il tonno in Mediterraneo e altrove sta sparendo. Lo faccio volentieri e nel mio stesso interesse, sapendo che la tutela del mare è un valore, e che sarò io stesso, i miei figli e i miei amici a trarre vantaggio da questo tipo di comportamento. Forse un giorno vedremo un grande pesce spada saltare a pochi metri dalla nostra barca, o osserveremo ammirati un branco di delfini nuotare a prua. Se succederà, sarà anche grazie alle nostre scelte. Un contributo piccolissimo, certo, ma non per questo irrilevante. Se è vero che un lungo viaggio comincia con un singolo passo, allora dobbiamo essere i primi a farlo, quel passo. Forse a qualcuno verrà voglia di seguirci.

Giovanni Bearzi

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Chi fosse interessato a leggere l'editoriale può scaricarlo dal sito Blackwell http://www.blackwell-synergy.com/toc/cbi/21/1 o richiederlo a me (bearzi@inwind.it).