08 November 2011

Quel che fa la differenza...


"Abbiamo il capodoglio".
Sento la voce compiaciuta di Sabina mentre guardo il mare con il binocolo, mi giro e vedo la sua espressione soddisfatta, mentre mi sembra di leggere una scritta scorrevole sulla sua fronte che dice "eh eh, sorpreso, vero? Io lo so già per certo, tra poco lo vedremo".
Me lo aveva spiegato: loro hanno l'idrofono, l'idrofono fa la differenza.
È un lungo tubo di plastica come quello per annaffiare il giardino (almeno, questo è l'aspetto) che però ha dentro una lunga reticella arancione e altri corpi sensibili; è attaccato a un cavo lungo duecento metri ed è trascinato in acqua, a poppa.
Mi hanno mostrato sui monitor, nel caldo e piccolissimo ufficio informatico, quello che l'idrofono racconta, ed è una meraviglia della ragione.
In breve, il capodoglio annuncia la sua presenza con suoni vari, i più caratteristici dei quali sono i "clicks". Alle orecchie delle ricercatrici questi suoni raccontano un sacco di cose su quello che sta facendo il mirabile organismo e su quanto è lontano.
Ma quello che più mi ha colpito è quel che succede quando, dopo una lunga sequenza con variazioni, le Tetidi annunciano "Coda! ha fatto coda!" e sfrecciano per la barca inseguendo compiti precisi.
"Coda" è una sequenza precisa di clicks, per loro ben riconoscibile: è come se il capodoglio dicesse (probabilmente lo dice ai compagni) "Bene, io salgo".
Ora siamo chiamati a scrutare una fetta di mare, perché si sa che lui sta arrivando, emergerà in pochi minuti ma non si sa dove sbucherà.
Ecco, tutti sono pronti e silenziosi, e sperano - io lo speravo - di essere il primo ad avvistarlo. Minuti, lunghi sospesi minuti, silenzio assoluto. Minuti che segnano, evidentemente: ci ripenso spesso, sorpreso della persistenza e della intensità del ricordo.
"Ore sei!" grida una voce, vuol dire a poppa, tutti si girano, ma dov'è, non lo vedo, le ragazze di nuovo sfrecciano e hanno in mano macchine fotografiche con lunghi obiettivi, ecco! Lo vedo anch'io, un enorme tronco semisommerso che luccica con violenza nel binocolo, il famoso soffio inclinato - lo sento, sento il respiro -; come è strano, mentre lo guardo so che tra poco se ne andrà e allora cerco di vedere, di vedere più volontariamente del solito, per ricordare.
Mi scuoto perché veniamo dislocati come di consueto, con modi garbati ma fermi, in posizioni che non intralcino le operazioni: lo skipper ha il difficile compito di avvicinarsi all'animale nel modo corretto, che prevede velocità, angolo, esposizione alla luce, distanza e deve poter vedere il mare e le ricercatrici, che lo aiutano con segnali e indicazioni.
Siamo vicini, ora, tutti sono silenziosi; si sente solo il suo respiro, vedo bene il colore e cerco di registrarlo nella memoria, vedo la discontinuità sul dorso dove c'è la cresta del cranio, i grandi corrugamenti della pelle; si gira sul fianco - ecco! - una lunga striscia azzurrino chiarissimo sott'acqua: è la mandibola.
Continuo a guardare sforzandomi di afferrare quanto più posso, mentre sento le raffiche di scatti delle macchine fotografiche.
Più tardi, davanti ai monitor, mi diranno che l'amico è una vecchia conoscenza: Taccone.

Massimo Demma

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