Sprofondo blu
Mi aggiro per un mercato del pesce di Istanbul sotto una pioggia leggera ma insistente. Saranno una ventina di bancarelle strette tra l’incombere di grossi palazzi anonimi e il mare, una lingua di acqua salata che entra dentro la città, la divide in due e che qui chiamano Haliç, il corno d’oro.
Sui banchi trovo un po’ di tutto; orate d’allevamento, spigole, seppie, calamari, astici, tonni, pesci san Pietro, cozze (che qui mangiano crude con una spruzzata di limone), enormi rombi chiodati e cefali. La testa di un piccolo pesce spada fa capolino da una bancarella, ridotta ad una triste attrazione. La gente passa via veloce, pochi comprano, i venditori confabulano tra di loro. Poco più in là, i gatti e i cani aspettano il cibo che verrà lasciato loro la sera. Ogni prodotto ha il suo cartello con il prezzo scritto a mano. Non viene mai indicata la zona Fao di provenienza. Visto così sembra che il mar Mediterraneo (zona FAO 37) abbondi di pesce e che goda di ottima salute. Quanti dei pesci che ho visto sono stati pescati qui, nelle acque della Turchia? Hanno corpi mollici al tatto, gli occhi sono concavi e spenti, le branchie di rosso hanno solo un labile ricordo. Mi viene il dubbio che arrivino da lontano, da altri mari.
La sera ho fatto un giro per i ristoranti e la scena è stata sempre la stessa. Banchi pieni di pesce esposti lungo le vie di passaggio. Le aragoste tenute vive sul ghiaccio e un’abbondanza colorata di pesci abilmente esposti come oggetti nelle vetrine dei negozi alla moda. Così è impossibile avere una percezione della realtà ovvero che i nostri mari sono vicini al collasso. Stasera posso scegliere tra l’aragosta e il pesce spada, così anche domani e il mese prossimo.
Il problema pesca esiste ed è una questione seria riconosciuta dai ricercatori, dai pescatori e dai governi. In realtà si pesca troppo e nonostante questo il settore ha un decifit economico enorme: secondo l’ultimo rapporto Onu del 2008 raggiunge i cinquanta miliardi di dollari all’anno. I governi sono costretti ad intervenire con fiumi di denaro per tenere la pesca ancora in vita. Quel che è peggio è che il 75% delle zone di pesca è al limite dello sfruttamento, gli stock ittici sono collassati, oggetto di anni di attività intensiva. Tuttavia c’è un paradosso che ha dell’incredibile. Di quello che peschiamo buttiamo via quasi il 30%. 20 milioni di tonnellate di pesce vengono ogni anno ributtate in mare. Il danno è biologico ed economico allo stesso tempo. Il perché di questa pratica insensata lo racconta Fabio Fiorentino del CNR dalle pagine del Venerdì, il settimale de “La Repubblica”.
E’ cambiato il nostro modo di mangiare e ci comportiamo con il cibo come con i vestiti. Scegliamo le specie più pregiate, più costose ma facili da preparare e non importa se arrivano sulle nostre tavole facendo il giro del mondo. Il tonno rosso mediterraneo che finisce nei ristoranti giapponesi con prezzi da gioielleria è probabile che sarà la prima vittima di questo comportamento sconsiderato. Nel 2007 nel Mediterraneo ne sono state pescate 61 mila tonnellate. Il doppio di quello consentito dalla comunità europea. Il timore che questa specie abbia la stessa sorte del merluzzo del nord atlantico è fondato.
Nel 2007 la UE ha stanziato il fondo per la Pesca, 420 milioni di euro per sostenere tutto il settore ittico fino al 2013. Secondo Fiorentino una parte dovrebbe venire utilizzata per iniziare una rivoluzione del settore. Fuori dall’acqua e per sempre i vecchi pescherecci, regolamentare severamente lo strascico e le reti derivanti, favorire la pesca artiginale vicino alle coste e investire nella ricerca di base per produrre tecnologie e metodi di pesca meno impattanti.
Mentre il futuro del mare sarà fuori pericolo solo se aumenteremo le zone protette e le quote di pesca di ogni singolo paese saranno decise con rigore scientifico e non con logiche politiche e commerciali.
Mauro Colla
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