02 March 2007

Conservazione... di carta


In un editoriale apparso recentemente su Conservation Biology - intitolato "Marine Conservation on Paper" - ho provato ad esprimere con sincerità il mio modo di sentire dopo molti anni trascorsi a cercare di migliorare lo stato di conservazione dei delfini in Mediterraneo.

Quando ho cominciato a lavorare c'era la percezione diffusa che se i delfini dei nostri mari non erano protetti questo dipendava anche o soprattutto dal fatto che i loro problemi non erano noti, non erano stati descritti in termini sufficientemente scientifici, oppure perché le conoscenze disponibili non erano state divulgate e convertite in Piani d'Azione con chiare indicazioni gestionali.

Il mio gruppo di ricerca ed io abbiamo provato a fare tutto questo: abbiamo studiato alcune popolazioni di delfini costieri in Mediterraneo per due decenni, abbiamo identificato e descritto le principali minacce, abbiamo pubblicato quei dati su periodici internazionali, li abbiamo divulgati attraverso i media europei e abbiamo redatto ampi piani di conservazione contenenti le azioni necessarie alla tutela degli animali. Abbiamo anche contribuito a una adeguata classificazione delle popolazioni, ad esempio includendo i delfini comuni del Mediterraneo nella Red List della World Conservation Union (IUCN) come popolazione "Endangered", oppure portando il delfino comune in Appendice 1 della Convenzione di Bonn (Convention on the Conservation of Migratory Species of Wild Animals, o CMS). Tutto questo è servito? Al momento pare proprio di no. I delfini continuano il loro declino e non sembrano essersi accorti del nostro lavoro.

Possiamo vantare nel nostro curriculum importanti "successi" scientifici e di conservazione, ma se tutto questo non si traduce in un effettivo beneficio per gli animali, si tratta davvero di un passo avanti? Certo, tutto quanto è stato fatto finora contribuisce a mettere i problemi nella giusta prospettiva, ma è ancora davvero poco se si considera che in alcune zone del Mediterraneo i delfini scompaiono a ritmi allarmanti.

Come scienziati e ricercatori, tendiamo a considerare un successo la pubblicazione dei nostri lavori su periodici di grido. A quel punto magari ci sentiamo soddisfatti. Ma quando si tratta di conservazione e non di scienza pura, è importante considerare la pubblicazione dei dati come un primo passo, e forse neanche il più importante, verso il raggiungimento di un obiettivo ben più difficile e lontano. Si tratta infatti di usare il nostro lavoro scientifico come un semplice strumento per dare sostanza e forza a un processo che comprende moltissima comunicazione verso l'esterno: seminari, conferenze, eventi, opuscoli informativi, lobbying, azioni che mettano quel particolare problema sotto i riflettori, fino al punto in cui i gestori arrivino a capire che si tratta di una faccenda che non può essere ignorata.

Perchè questo avvenga è necessario ingegnarsi per migliorare la qualità della comunicazione. Vogliamo combattere una battaglia per proteggere i delfini dell'Adriatico o dello Ionio? Dobbiamo fare in modo che la loro sopravvivenza sia percepita come qualcosa di importante, bisogna sensibilizzare il grande pubblico così come gli stakeholder anche attraverso un nostro diretto coinvolgimento. Le persone più qualificate per trasmettere quel tipo di messaggio siamo proprio noi che abbiamo descritto il problema in termini scientifici, che abbiamo a cuore la sorte degli animali, e che, soprattutto, abbiamo una nostra storia personale da raccontare.

La chiave di lettura del problema, il fattore di interesse, è forse proprio la nostra motivazione personale e la nostra speciale percezione del problema. Quello che la gente vuole sapere, alla fine, non è quanti delfini ci sono o quali enormi problemi li minacciano, ma perché a me - come individuo - sta tanto a cuore la loro sopravvivenza. Siamo assediati da storie agghiaccianti e ormai assuefatti al disastro ambientale, e tuttavia le storie personali ancora ci interessano e siamo affascinati dagli idealisti e da chi dedica la propria vita a una causa meritevole, nonostante tutto.

Sta a me, allora, portare avanti questa piccola battaglia. Se riesco a trasmettere tutto il mio carico di emozioni, se ce la faccio a raffigurare la presenza di delfini nel mare come un valore assoluto, allora può capitare che qualcuno sia disposto a fare qualcosa. Per riuscire a fare la differenza devo mettermi in gioco, e non limitarmi a pubblicare montagne di carta che troppo spesso finiscono negli scaffali polverosi di qualche archivio.

La documentazione dei problemi è necessaria, i Piani d'Azione sono fondamentali, il contesto internazionale è importante, ma perché tutto questo porti davvero a un cambiamento c'è bisogno che qualcuno sia disposto a modificare il proprio comportamento, forse a rinunciare a qualcosa in nome di un qualcos'altro che, grazie al nostro impegno, viene ora percepito come più importante.

Posso smettere di mangiare pesce spada perché so che le reti illegali con le quali vengono catturati questi pesci fanno strage di cetacei e tartarughe. Posso evitare di comprare tonno perché sono consapevole che il tonno in Mediterraneo e altrove sta sparendo. Lo faccio volentieri e nel mio stesso interesse, sapendo che la tutela del mare è un valore, e che sarò io stesso, i miei figli e i miei amici a trarre vantaggio da questo tipo di comportamento. Forse un giorno vedremo un grande pesce spada saltare a pochi metri dalla nostra barca, o osserveremo ammirati un branco di delfini nuotare a prua. Se succederà, sarà anche grazie alle nostre scelte. Un contributo piccolissimo, certo, ma non per questo irrilevante. Se è vero che un lungo viaggio comincia con un singolo passo, allora dobbiamo essere i primi a farlo, quel passo. Forse a qualcuno verrà voglia di seguirci.

Giovanni Bearzi

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Chi fosse interessato a leggere l'editoriale può scaricarlo dal sito Blackwell http://www.blackwell-synergy.com/toc/cbi/21/1 o richiederlo a me (bearzi@inwind.it).

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